3.12.54 Sopra la linea verde



di Francesco Tavanti

“Ci sono salite?” chiesi ad un signore con la barba bianca, mentre aspettavamo in mezzo al gruppo l’ora della partenza. Era un toscano come me, e mi rispose che non lo sapeva perché era la prima volta che veniva, anzi era la prima volta che faceva la maratona. “Piacere anche io” dissi allungando la mano destra, lui ricambiò cortesemente. Iniziò una lunga conversazione sul più e sul meno, fino allo sparo dello start.
Il gruppo iniziò ad allungarsi lungo le stradine strette nel centro di Pontedera, proprio in mezzo a quel paese che sessanta anni prima, aveva visto circolare per primo quello strano scooter chiamato Vespa, quell’oggetto di culto osannato in tutto il mondo che negli anni successivi avrebbe fatto la fortuna della cittadina in riva all’Arno. Certo di modelli in sessant’anni ne sono cambiati molti, ma la forma è sempre quella, le due pocce (come le definivano in campagna) squadrate o arrotondate a seconda dell’epoca, il faro tondo o rettangolare. Il manubrio dritto che con la posizione della sella, da a chi guida, quella tipica posizione verticale del busto, che con il mezzo, assume quella forma inconfondibile spesso fotografata con alle spalle, pomeriggi assolati toscani, oppure scenari mozzafiato come la Costiera Amalfitana o il centro di Roma. E ancora i grandi viaggi attraverso il mondo, cavalcando quello strano insetto metallico, è sì! Perché ancora oggi se con le nocche delle dita date dei colpetti sulla carrozzeria sentirete il rumore della lamiera. Che bello quel rumore! E’ qualcosa di vero in un mondo di plastica, una sicurezza da oltre mezzo secolo, in un mondo che vuole prodotti nuovi ogni anno. Un po’ come le persone le quali cambiano, nell’arco della vita, ma rimangono sempre loro. Certo anche la Vespa quando nacque era bellissima, dalle forme perfette, l’occhio vi scorreva sopra senza soluzione di continuità, poi dopo alcuni giorni scopriva un nuovo particolare e questo donava gioia e ammirazione verso coloro che l’avevano pensata e realizzata. Ci sono cose che non hanno tempo, credo che si stia parlando dell’Arte. Ma può essere considerata arte una corsa podistica? Nell’occasione una galoppata di 42 Km, nella campagna Toscana, lungo strade ombreggiate da pini marittimi, in mezzo a paesi medievali sotto Certose mozzafiato, costeggiando l’Arno e i palazzi rinascimentali di Pisa, e con l’arrivo in piazza dei Miracoli. Ma quale è il miracolo? Forse la sua straordinaria bellezza, Duomo e torre di marmo bianco sopra un giardino in mezzo alla città, oppure quella inconsueta torre che sfida le leggi della fisica oppure il sole la cui luce schizza su ciascuna superficie donandoti un’infinità di colori. Forse Collodi quando scrisse l’episodio del Campo dei Miracoli, pensava proprio a questo posto, dove tutto può succedere; anche l’arrivo di una maratona, la corsa più romantica e drammatica della storia. E’ un sentimento una sfida un omaggio che si rinnova ogni volta. Oggi è diventato un fenomeno di massa, un fatto di costume. Ogni città grande o piccola ne vuole una, persone famose come: attori, cantanti, show man, politici non se la lasciano scappare come mezzo promozionale alla loro attività. La fatica, il sacrificio nobilita oggi più di ieri l’uomo, in un mondo in cui tutto sembra fin troppo facile, ma che è ancora incompleto per rendere felice e dissetare l’uomo. Ed ecco che quel sorso d’acqua, ogni due tre Km da dividere con un compagno di viaggio sconosciuto, assomiglia a Dio, quella fatica nel corpo e nella mente è il luogo più bello che non vorresti mai lasciare. Nel frattempo i Km passano, la corsa prima la dividi in otto parti poi in quattro poi provi in tre ma! E’ imprecisa.
Ecco la mezza! Come dicono gli inglesi Half Marathon, si passa sotto un arco nero di quelli di plastica gonfiati, il gruppo è compatto dietro i due Pacemaker (segna passo) delle 3h e 15 min, siamo circa trenta persone di tutte le età grandi e piccini, ognuno con la sua maschera di fatica, ognuno con i suoi pensieri, ognuno con la speranza di arrivare in fondo. E’ sì perché il primo obiettivo della Maratona è quello di finirla. Una cosa a cui ripenso sempre con estremo piacere dopo la corsa, è la solidarietà che la fatica e il dolore fa nascere fra i concorrenti, dopo un rifornimento c’è sempre qualcuno che ti chiede se vuoi dell’acqua o sali minerali che aveva preso per se. Un consiglio quello giusto arriva sempre puntuale come per esempio “non bere troppo” oppure “mettiti da questo lato del gruppo” quando c’è vento, e ancora “prendi la banana, non prendere zucchero o tè perché ti prendono i crampi allo stomaco” e così via passo dopo passo, nel silenzio prodotto dall’assenza di auto, e rotto dallo step delle scarpette sull’asfalto. Dalle finestre c’è chi ti saluta e ti incita, una bambina che dice “mi sembrate un branco di bufali” come darle torto, sudati e sbuffanti, in preda a soddisfare i bisogni primari, bere mangiare e qualche volta pisciare. L’ungo la strada nei paesi, capita di incontrare donne sole o accompagnate dai figli, mentre si recano alla messa o al bar “buon giorno signora” dice il Pacemaker che si sente il galletto del pollaio, non fosse per altro che è il più fresco di tutti, ma poi anche noi uno dopo l’altro fino ad un coro all’unisono “buon giorno signora” lei ride o sorride gratificata da tanto animalesco istinto. Qualche volta fra noi amici ci chiediamo “ma se quando arrivi al traguardo c’è una…?” non voglio andare avanti in descrizioni volgari, che esprimono i desideri inconfessati degli uomini, insomma “che faresti?” spesso per quanto “Uomini” si possa essere, la risposta è sempre la solita “niente! Voglio solo un sorso d’acqua e stendermi prima possibile sul divano o sul letto”.
Dopo la mezza si iniziano a fare i conti più accuratamente, ed una certa incertezza subentra nelle considerazioni, si ascolta il nostro corpo i muscoli e i polmoni. Si cerca di capire. La mente come un computer riceve continue informazioni dai sensori posti in tutto il corpo. Tali informazioni vengono elaborate in base all’esperienza accumulata ma anche facendo riferimento alle sensazioni del momento. In una maratona c’è tempo per tutto: per parlare, scherzare, soffrire, mangiare e bere, consigliare, incitare, ringraziare, sperare e pregare, ma non bisogna mai sbagliare, gli errori si pagano e cari.
Le gambe sorreggono e spingono il corpo in avanti, i polmoni forniscono ossigeno, l’apparato digerente energia, le braccia mantengono l’equilibrio e alimentano la bocca, la mente elabora e comanda ogni istante. Sento nella testa rimbombare i consigli, di chi c’è passato prima di me, di chi fa gia parte del club dei maratoneti, sembrano tutti giusti ed io li metto in pratica, siamo al ventottesimo Km, c’è un podista che è caduto in un fosso mentre pisciava, i due Pacemaker corrono indietro a chiamare l’ambulanza, noi gia decimati rimaniamo disorientati, c’è chi rallenta o chi suggerisce di aspettare i Pacemaker, io decido di continuare nel mio passo anzi dal momento che ho delle buone sensazioni cerco di trovare il passo a me più congeniale, non più quello del gruppo ma quello mio personale. Sembra che ci riesca i Km passano, arrivo oltre il trentesimo, il famoso muro della maratona, oltre non so quello che mi aspetta, non ho mai fatto più di trenta Km.
Mi ricordo ancora quando poco più di quindicenne, mi svegliai presto in una domenica mattina di metà settembre, e mezzo nudo rannicchiato a sedere nel divano seguii le gesta eroiche di quell’italiano con la barba. Il nome non l’avevo mai sentito Gelindo diceva il telecronista. Era una bellissima giornata sia qui che a Seul e il gruppo prima numeroso cominciava ad allungarsi e frammentarsi. Il fiume brillava e Gelindo sembrava essere l’unico bianco resistere alla forza incontenibile degli africani. “Ecco il trentesimo Km” disse lo speaker “ora c’è la prova della verità, il muro della maratona, cerchiamo di capire come sta Bordin” la testa piegata in parte, gli occhi di dolore i muscoli facciali che si contraggono ad intermittenza. Sono gli ultimissimi Km sono ormai rimasti in tre o quattro, partono gli africani e vanno via, mancano due Km Bordin sta tornando sotto, i due neri non ce la fanno più, mentre lui è in progressione. Lo stadio lo aspetta in piedi, anche io sono in piedi sopra la poltrona, eccolo mentre subito fuori dallo stadio olimpico entra in mezzo alla folla, si gira ma dietro c’è il vuoto. Poi sparisce nel tunnel sotto lo stadio, un ovazione lo accoglie, ancora un giro ancora 400 mt, quante volte l’avrà fatti 400 luridi mt eppure quelli saranno i più duri e i più belli della sua vita. Dopo il traguardo barcolla, poi si inginocchia e bacia la pista.
I trenta Km sono un banco di prova sia che tu vada forte o piano, in quei momenti ho pensato che al ritmo con cui stavo correndo prima o poi ci sarebbe stato il collasso, la macchina si sarebbe rotta, ora tutto stava nel capire se il collasso sarebbe avvenuto prima o dopo i 42 km.
Il ritmo rimane costante anche se la stanchezza nel mio corpo cresce. Le parole del Viti della sera prima “…gli ultimi km sono di estremo dolore non ti preoccupare è normale…” mi accompagnano mi consolano mi rassicurano. Penso fra me che nessuno ci crederebbe che sono al trentaseiesimo Km neppure io vista la scarsa preparazione, che non ha mai superato i venti Km oltre all’intero inverno passato senza toccare le scarpette. Eppure questi Km non si inventano, lo sapevo due settimane prima quando mi iscrissi che stavo bene, ed ora ne ero quasi certo. Correvo da solo sorpassando di tanto in tanto qualcuno, ecco le mura della città le stradine strette, la gente che affolla i marciapiedi, il mercato l’orchestra che ti incita poi l’Arno da un lato e dall’altro. Ecco il cartello con scritto 41, ancora un Km e 195 m, penso “che bello non incontrerò più la segnalazione del chilometraggio”. Fino al quarantesimo ho pensato a quello che mi aveva detto Carlo, “anche se stai bene stai attento perché nella maratona puoi schiantare anche gli ultimi due Km come accadde a me a Venezia, bene fino dopo il ponte e poi Booom!!! Camminai fino al traguardo”. Ancora ero in spinta, dopo ciascuna curva ad angolo retto del centro storico, ci poteva essere la sorpresa, quella piazza tanto desiderata. Prima o poi l’avrei vista lì come nelle cartoline degli stranieri, come quando c’era l’Intervallo alla Rai o come quando Superman addrizzò la torre. Nella gente che ti guarda c’è una sorta di ammirazione e rispetto per il grande sacrificio, anche se sei l’ultimo, e quando applaudono o ti incitano ti senti bene, senti che stai facendo qualcosa di giusto e sei orgoglioso di te stesso.
Eccola, la piazza! Ora posso anche allungare, le transenne mi dividono da una folla in festa che sembra applaudire la mia impresa, la torre è li, sopra di me nella sinistra, la posso toccare e quasi ringraziare, è una sorta di Dio pagano, le due ali di folla curvano a destra eccolo lo striscione è finita. Ho vinto, sono morto.

 

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