Un castello per ogni contadino



di Francesco Tavanti

Quando Pietro Leopoldo nella metà del diciottesimo secolo fece un censimento per capire in quali condizioni versavano i ceti agricoli del Granducato, si accorse che la situazione igienico sanitaria era estremamente precaria e che i contadini vivevano alla stregua di animali.
Perciò contestualmente alla bonifica delle zone paludose, quali Val di Chiana e Maremma per donare nuove terre all’agricoltura, si realizzarono a Firenze i progetti della cosi detta casa “Leopoldina”. Queste abitazioni che si trovano soprattutto nel triangolo Arezzo, Siena, Firenze erano le abitazioni dei mezzadri. Erano case azienda al servizio del podere. Costruite all'apice delle collinette perché le "terre basse" erano allagate, dominavano il territorio circostante  come i castelli mediovali e le ville rinascimentali. La struttura a base quadrata o rettangolare si sviluppava su due piani più una torretta di avvistamento centrale, voluta dal Granduca per la sicurezza dei coloni. Nel tempo la torretta perse la sua funzione di avvistamento per diventare la piccionaia. Le finestre furono chiuse, e lasciate piccole fessure da dove entravano i volatili.

Le Leopoldine erano castello per garantire la sicurezza dei suoi abitanti, erano fabbrica perché servivano alla gestione mediamente di 23ha di terreno. La famiglia patriarcale, che coltivava la terra era costituita dal capoccia dai figli e nipoti, perciò spesso da cucini e zii. Si arrivava a 20/30 persone per famiglia. A loro era affidato un podere le cui dimensioni variavano in funzione delle braccia maschili, che l’avrebbero coltivato. In realtà anche le donne dopo aver cucinato, rigovernato, lavato e stirato, per i mariti e i numerosi figli, scendevano nell’aia per governare polli, nane e conigli e poi raggiungevano gli uomini nei campi soprattutto durante la battitura del grano e la raccolta dell’uva e delle olive.

Queste case erano perfettamente simmetriche, e austere. Costruite con la pietra, e intonacate con un colore, che poi prenderà il nome del luogo “il giallo toscano”. Un giallino paglierino, senza soluzione di continuità con la terra e i campi di grano circostanti. La Leopoldina era si la casa di persone povere che possedevano solo il loro lavoro, ma era bella, elegante, solida e dignitosa. I materiali da costruzione erano reperiti nell’immediate vicinanze, ed erano rappresentati dalla sopracitata pietra arenaria per le pareti e il pavimento del piano terra, i travi e i travetti per i solai, e il laterizio per il pavimento dell’appartamento e per i coppi e tegoli del tetto. Tutte le aperture interne ed esterne erano ad arco: porte, finestre e soffitti a voltina nelle stalle.

Al piano terra c’erano le stalle dove alloggiavano le vacche Chianine. Queste rappresentavano la forza motrice nei campi prima della meccanizzazione. Le bestie giganti dalla livrea bianca, oltre a tirare l’aratro fornivano saltuariamente la carne al colono e al padrone del podere. Ma non solo, il calore emanato dal loro corpo e dai loro liquami, saliva leggero contribuendo al riscaldamento "dell’appartamento" al piano superiore. Il pavimento in pietra arenaria (pietra serena) consentiva una facile pulizia e una durata pressoché illimitata. Nelle stalle le bestie erano legate alla magiatoia di legno con una corda. Questo consentiva di raccogliere gli escrementi in una canaletta dietro l'animale. Le finestre alte non permettevano alla luce di diffondersi pienamente.
Spesso in inverno, i contadini per scaldarsi, usavano andare a lume di candela, nelle stalle a giocare a carte. La lettiera che veniva stratificata durante la settimana consentiva agli animali di rimanere caldi e puliti.

Entrati nel loggiato centrale a piano terra si poteva accedere in senso orario a sinistr, a sinistra nella stanza adibita a rimessaggio del fieno e del granturco per gli animali, a dritto nelle stalle, e a destra nelle scale che portavano al piano superiore. Questo schema variava in funzione delle dimensioni e della cultura del luogo. In alcune dalla porta in fondo al loggiato, si entrava in un corridoio centrale, che divideva le stalle in due ali, e da cui a metà si imboccavano le scale per salire nell'appartamento. Sotto il loggiato, in un lato c’era anche la bocca del forno che una volta alla settimana veniva acceso per cuocere il pane. Mia nonna racconta quel momento come un grande evento. La pasta in pagnotte da circa 2 kg, lievitava naturalmente per un giorno, poi veniva solcata a croce con le mani, e quando il forno era ben caldo veniva adagiata nel piano di mattoni. Con la pasta che avanzava i bambini facevano delle piccole focacce, condite con sale e Olio Extravergine di Oliva. Quel pane sarebbe bastato tutta la settimana fasciato da canovacci e riposto nella madia. Inoltre in un angolo si trovava un fornello in muratura dove veniva adagiato un pentolone per il bucato. Il loggiato era pavimentato come le stalle con pietre scalpellate e incastrate fra loro, mentre il soffitto era fatto con travi e travetti. Nelle pareti del loggiato si appendevano setacci, e attrezzi vari per la gestione dell'azienda.
Nella facciata centrale a lato del loggiato, si trovavano due porte utilizzate come rimessaggio agricolo o come pollaio per galline e anatre.

Sfilato il chiavistello che bloccava le due ante a doghe trasversali della porta principale, si accedeva alla scala a due rampe fino al piano superiore. I gradini di pietra risultavano consumati nel centro, a testimonianza delle innumerevoli volte che erano stati percorsi.
Si accedeva direttamente ad una stanza illuminata dalla veranda ad arco, in corrispondenza del loggiato sottostante. Da questa stanza si saliva per mezzo di una scala lignea a pioli, attraverso una porticina, nella torretta/piccionaia. Un'altra versione era la presenza di scale di legno anguste, come quelle che percorrevano le torri dei castelli, che debordavano con la parte superiore nella stanza centrale alla casa. Ma soprattutto dalla veranda, si entrava nella stanza centrale, varcando una porta a stipite opposta alla grande apertura arcuta nel fronte della casa.

Gli architetti di Leopoldo avevano concepito l’appartamento come quelli rinascimentali, nati a sua volta dai castelli medievali. Da questa stanza baricentrica si dislocavano, attaverso quattro porte nelle due pareti laterali, tutte le altre stanze, alcune delle quali passanti verso ulteriori camere. In un lato, in mezzo alle due porte, si ergeva il grande camino, dalla cui cappa che arrivava al soffitto, scendeva un catenaccio con attaccato un paiolo di rame annerito dalla fuliggine, pieno d'acqua. Era il riscaldamento, e il "fornello" della casa. Il focolare è diventato nel tempo sinonimo di famiglia, perché è sotto e introno ad esso che ci si ritrovava alla sera. Due panchine laterali accoglievano nelle serate più fredde persone e animali domestici. Si vegliava con i racconti della giornata, con i racconti d’amore e spesso con i problemi legati al cibo. Prima di coricarsi si riempivano gli scaldini di brace e si mettevano sotto il letto. Quando ero piccolo mi ricordo una volta che nel focolare della casa colonica della sorella di mia nonna, c’era una cesta di vimini piena di paperelle appena nate.
Nella parete opposta al focolare il mobilio rappresentato dalla madia e dalla vetrina. Mentre nel lato opposto da dove eravamo entrati c’era una finestra che dava nel retro della casa. In un angolo il lavandino di pietra a due buche, con sotto una tendina dove si nascondevano secchi in rame, mezzine e attrezzi vari per la pulizia della casa. Sopra il lavandino una piattaia di legno dove riporre e sgocciolare le stoviglie. I saponi fatti con il grasso animale e cenere servivano sia per lavarsi sia per detergere piatti e pavimenti. A proposito il pavimento era fatto con mattoni mentre nelle pareti il battiscopa era disegnato con una fascia scura di circa 30 cm, sopra la calce giallina era praticamente nera dal fumo del focolare. Al centro della stanza un lungo tavolo con panche laterali raccoglieva la famiglia al completo, capeggiata a capotavola dal vecchio capoccia. Lui rappresentava in quella piccola società autarchica l’esperienza, la sapienza, la conoscenza. Lui aveva visto il susseguirsi di tante stagioni, quelle buone e quelle meno buone. Sapeva come mediare i contrasti di potere fra i componenti delle famiglie, conosceva molti racconti che insegnavano a vivere; ma soprattutto era quello che ricurvo più di qualsiasi altro, aveva coltivato la terra per la sopravvivenza della famiglia. Le sue mani nodose assomigliavano ai rami bitorzoluti che aveva potato, le sue gambe ricurve raccontavano di pesanti balle caricate nella schiena, di buoi tirati e di vanghe affondate nella terra. Dopo il pasto frugale si addormentava con la testa appoggiata sopra le braccia conserte sul tavolo. Davanti un fiasco di vino rosso, e un bicchiere ormai vuoto. A fine poasto da sopra la tavola non cadeva niente a terra, con il coltello si raschiavano le briciole di pane dalla tovaglia, gli ossi di pollo e coniglio ormai svuotati anche del midollo, venivano dati al gatto che impaziente miagolava sotto il tavolo.

Ciascuna camera riuniva un intero nucleo familiare. I letti in ferro battuto avevano le gambe secche e la testata slanciata verso l’alto, recante un'effigie sacra. Ai loro piedi un baule che raccoglieva i vestiti inamidati. I lenzuoli, gli asciugamani e le tovaglie erano fatti con la canapa coltivata nei campi. Infatti oltre alle piante alimentari si coltivavano lino e canapa, che poi venivano stegliati, filati e tessuti tutto in casa.
Gli infissi erano di legno; a doghe per le porte, e a sei vetri per le finestre tamponate dall’interno con gli scuri. Interessante era il colore grigio-celeste usato per colorare il legno, definito anche “pervinca” dall’omonimo fiore.
Il bagno mancava, si andava fuori... oppure nelle bacinelle che poi erano scaricate nei campi.
Come i castelli anche le Leopoldine avevano il loro feudo, formato da fienile, stalletto dei maiali e il pozzo per l'acqua. Alcune volte c'era anche la chiesina che alla domanica riuniva i coloni della zona.
Nel tempo il deterioramento dell’intonaco ha reso visibile le pietre da costruzione, gli interventi di tamponamento e riquadratura delle finestre e porte, ma soprattutto le pietre scartate che poi diventarono “pietre angolari”.
Oggi queste dimore sono diventate le abitazioni di ricchi signori oppure giacciono nella campagna derute dal tempo e dall’incuria. Come vecchie nobili signore senza più cappello, aspettano chi con stucco e barba trucco le riporti agli antichi splendori.

 

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