Il lanificio di Soci



Tra la fine del ‘600 e la metà del ‘700 due famiglie (Grifagni e Franceschini) monopolizzarono l’attività laniera di Soci divenendo i più importanti lanaioli del Casentino: i Monaci Camaldolesi avevano concesso loro ambedue le gualchiere operanti in paese e per alcuni decenni panni fini, mezzilani, stametti e rascette vennero prodotti in buona quantità. Nella seconda metà del Settecento non vi furono, a Soci, importanti lanaioli e solo all’inizio dell’800 l’attività prese vigore grazie a Pietro Ricci , già a capo d’un lanificio nella vicina Stia: il primo a ciclo completo sorto in Casentino. Quando morì, nel 1820, Ricci lasciò ai figli un’organizzazione manifatturiera di tutto rispetto che (nei decenni successivi, guidata dal terzogenito Don Prospero) s’avviava ad incrementare e diversificare la produzione dei filati: copertine per muli, coperte per letti, panni tinti in rosso, panni assai fini detti peluzzi, cingoli, panni mezza lana, cappelli di pelo, panni lana pesanti detti rascioni etc. Erano chiamate cingoli le fasce, alte circa 15 cm, con cui i Monaci Camaldolesi cingevano la tonaca all’altezza della vita. I panni mezza lana erano usati per gli abiti da fatica. Cappelli di filo di lana intrecciati a maglia e poi sodati alle gualchiere: detti anche cappelli alla levantina.
Ma fu Giuseppe Bocci, nipote di Don Prospero, a far progredire il Lanificio in maniera esponenziale: le sue idee, che ricalcavano i nuovi concetti imprenditoriali diffusi in Europa, e nel 1848, a fondare la Società “Lanificio del Casentino”. Egli aveva ereditato dal ramo materno tutti i segreti dell’arte della lana, mentre dal padre aveva appreso una grande dimestichezza con il commercio ed un’ampia visione del mondo. Uomo d’ingegno, dotato di volontà ferrea e spirito d’iniziativa, Giuseppe a soli 27 anni era intestatario della “Bocci & Mugnai”: una società di comodo costituita per salvare il lanificio di Stia, messo in liquidazione. destinata a divenire fra le più accreditate in Italia. Per fornire movimento alle macchine il Bocci, primo in Casentino, fece costruire una ruota idraulica dalla ditta Hollinger di S. Andrea a Rovezzano; i telai a mano, dotati di navetta volante, velocizzavano l’azione della spola e le greggi toscane, incrociate con arieti di razza merinos, offrivano lane d’una qualità molto migliore delle precedenti. Era, questa, l’epoca “(…) in cui industria e agricoltura si guardavano in cagnesco, avevano banchi separati in chiesa, ed i grossi proprietari terrieri malvolentieri mandavano la figlia di un loro fattore a lavorare in fabbrica. Ma la fabbrica era benessere, era lasciare gli zoccoli per mettersi in cammino verso il progresso; era tessere, con il filo di lana, una nuova coscienza sociale”.
A questo progresso Giuseppe Bocci partecipò fortemente, tanto che un giornale locale, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, nel 1877, scriveva: “I panni e le cachemire dei signori Ricci e Bocci del Casentino godono di una ben meritata reputazione per la loro bontà e buon mercato. Alla prossima esposizione vedremo quanto avranno guadagnato in bellezza i prodotti del signor Bocci, per la costosa introduzione di nuove macchine”. Sostituiti i vecchi telai a mano con i meccanici e costruita la nuova Fabbrichina di Partina, attrezzata di quattro fòlle, purgapanni e spremitore orizzontale, nel giro di qualche anno il Lanificio fu capace di reggere il confronto con i più importanti stabilimenti italiani: 40 vani tra saloni, uffici e magazzini, 2 grandi ruote idrauliche per produrre l’energia necessaria allo sviluppo della fabbrica, macchine per la cardatura, un’efficente tintoria, un reparto di rifinizione con garze, cilindri e presse per stirare…Ovvero: quanto di più moderno offriva l’epoca.
Dopo Giuseppe Bocci la guida della fabbrica passò nelle mani del figlio Sisto, che apportò numerose modifiche nei sistemi di produzione. La crescita del Lanificio fu dovuta non solo ai nuovi e moderni macchinari introdotti, ma anche alla qualità delle lane impiegate (notevolmente migliorate da quando le pecore nostrali vennero incrociate con arieti di razza merinos). La navetta volante venne inventata da un inglese nei primi decenni del XVIII secolo ma giunse da noi quasi un secolo dopo. “Si trattava di un brevetto che permetteva alla spola, da cui si svolge la trama, di attraversare la luce del telaio spinta da martelli ad azione meccanica anziché da un lancio effettuato dalla mano del tessitore”. All’epoca di questo articolo i Ricci di Stia e i Bocci di Soci erano ormai concorrenti ed il loro antagonismo risultò estremamente produttivo per l’evoluzione dell’industria tessile in Casentino e in Toscana. I nuovi macchinari cui fa riferimento il giornalista, altro non sono che i telai meccanici (introdotti nella fabbrica di Bocci pochi mesi prima dell’Esposizione parigina). La fabbrichina di Partina, sussidiaria a quella di Soci, venne costruita nel 1882. Oltre quanto già menzionato, furono installate nell’opificio due sfilacciatrici ed il lavaggio per la trasformazione degli stracci di lana in lana meccanica. Questo macchinario era mosso da una ruota idraulica Girard che fino al 1882 alimentò l’opificio di tutta la forza necessaria.
Nel 1887 lo stabilimento, prima illuminato a petrolio, fu dotato di luce elettrica e pochi mesi dopo venne introdotta una nuova macchina per asciugar pezze. Il merito di tale, intenso progresso era da attribuire a Sisto Bocci (uno dei sei figli di Giuseppe): mandato nelle migliori scuole europee – inglesi e belghe – importò dall’estero tecnologia e tecnici “(…) oltre che ai semi arricchiti del cardo, indispensabili per quella fase della lavorazione del tessuto di lana che da questa pianta prende nome, la cardatura”. Certo l’esperienza di Sisto non fu costellata solo di successi: conobbe concorrenze spietate, furti e manomissioni del suo bilancio da parte di persone ritenute fidate, visse momenti di crisi e scoramenti. Ed ebbe da confrontarsi con il nascente socialismo, con lavoratori che, sempre più consapevoli dei propri diritti, chiedevano l’inserimento di clausole più giuste nei contratti. Ma nell’immaginario collettivo, Sisto s’era giustamente guadagnato un ruolo speciale. Di notte, protetto da un lungo mantello, visitava i reparti dove i suoi operai facevano le “16 ore” incoraggiandoli nel lavoro; partiva per lontani e misteriosi viaggi in compagnia d’una pistola e del suo fido servitore; e, malgrado l’incedere dell’età, continuava a definirsi uno scapolo impenitente. Tutto contribuiva a fare di lui una leggenda. Compreso la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia, che fu festeggiata con gioia da tutti i compaesani. In realtà la vita affettiva di Sisto non fu così solitaria come taluni l’hanno spesso dipinta. Egli ebbe, infatti, una compagna che gli rimase accanto per tutta la vita e una figlia. L’unico errore commesso da Sisto Bocci fu riguardo ai lasciti testamentari; egli infatti destinò una notevole quantità di denaro alla Società Operaia del Lanificio, alla Croce Bianca, alla Compagnia della Misericordia, all’Asilo… Addirittura dispose un compenso di 4 lire per ciascun operaio che avesse partecipato al suo funerale, senza contare le somme offerte al Priore e ai sacerdoti … Mancando di liquidi sufficienti, i suoi successori non poterono pienamente rispettare tali volontà e, morto il nipote Adriano, destinato da Sisto alla guida dell’azienda, essi preferirono mettere in vendita la fabbrica (che da allora conobbe un susseguirsi di alterna fortuna).
Alla morte di Sisto Bocci (avvenuta nel 1915) i successori preferirono non accollarsi l’onere della conduzione del Lanificio e pochi anni dopo, quando si presentò un’occasione di vendita, il passaggio di proprietà avvenne senza eccessivi ripensamenti.
Tra l’altro un grave incendio, danneggiata la fabbrica nel reparto della cardatura e colpiti numerosi telai meccanici, aveva già causato un grave deprezzamento dell’immobile, accelerando così il passaggio a nuovi acquirenti.
Fu Gian Battista Bianchi a dare nuova vita al Lanificio: macchinari e padiglioni furono rimodernati, il lavoro programmato razionalmente, tanto che la fabbrica “(…) arrivò a tessere ogni giorno circa 1500 metri di stoffe varie, in maggioranza panni per forniture militari, non trascurando tessuti fantasia per il mercato civile, cardati in genere, plaids colorati di lana ed alcuni pettinati. Era perfettamente fornito di tutte le macchine per la preparazione della lana alla filatura, la cardatura disponeva di 8 assortimenti, 10 le filande (Selfactings) per circa 3500 fusi, 100 telai meccanici, più il reparto di rifinizione al completo” I primi anni del 1920, per Soci, furono un momento di crescita e ripresa non solo economica, ma anche demografica: basti pensare che nel 1922-1923 venne costruito un Asilo infantile per il lascito testamentario di Sisto Bocci ; lascito che “(…) con la notevole cifra di 80.000 lire stimolò e incentivò altri contributi tra cui si distinse quello di Bianchi, che provvide inoltre alla costruzione d’una Cassa Mutua per le pensioni degli operai addetti al Lanificio dotandola di vari immobili”.
Gian Battista Bianchi era persona nota sia nel mondo del lavoro che in quello politico: era stato insignito alla croce al merito del Lavoro, oltre ad essere stato per vario tempo Senatore del Regno. Dopo l’incendio sopra menzionato, che distrusse parte del lanificio, la fabbrica venne prima rilevata dalla Società Bianchi-Ceccantini, che ebbe vita brevissima (un anno appena) e al suo scioglimento, nel marzo 1919, passò sotto la guida del senatore Bianchi, che per oltre dieci anni fu un impresario accorto e capace. Sotto la sua direzione il Lanificio introdusse per la prima volta la filatura a pettine, dando lavoro ad oltre 600 operai.
A questa fase “aurea” seguì un periodo d’estrema difficoltà inaugurato dalla crisi del 1929, che travolse la fabbrica (come le altre industrie di zona) incrinando per sempre la forte ripresa inaugurata da Bianchi: dopo una breve gestione controllata dal Tribunale di Milano, il Lanificio chiuse nel giugno del 1931, lasciando a moltissime famiglie l’unica alternativa dell’esodo.
Negli anni precedenti la crisi, con l’attrattiva di un lavoro sicuro, Soci aveva infatti richiamato la popolazione di molti borghi Casentinesi divenendo uno dei centri più vivi ed operosi della valle: e da qui molti partirono alla volta del Piemonte, del Veneto o della vicina Prato.
A riaprire il Lanificio furono proprio coloro che, per incarico del Tribunale di Milano, avrebbero dovuto decretarne la definitiva sepoltura: il Dott. Milziade Baccani e il Dott. Virgilio Maranghi, l’uno addetto all’asta dei beni, l’altro commercialista di grido. Insieme, scoperto che l’attivo della ditta superava largamente il passivo, decisero di riattivare il Lanificio. L’inviato del Tribunale di Milano, cui venne assegnata la gestione del Lanificio, era il ragionier Pozza, che tentò di completare la lavorazione degli articoli rimasti sospesi dando vita ad un esercizio provvisorio dell’azienda chiusura. 230 persone (tra operai, tecnici e contabili) tornarono al lavoro ed in pochi anni l’attività della fabbrica riprese a pulsare. E infine arrivò la guerra, che non risparmiò il Casentino ripercuotendosi pure sul Lanificio: la cui sorte fu segnata dal passaggio del fronte, nel 1944. Il periodo successivo fu durissimo per tutta la vallata. E la ripresa, dopo la liberazione, apparve lenta: c’era da ricostruire quanto il conflitto aveva devastato non solo dal punto di vista psicologico, ma anche materiale ed economico. “Ma l’economia nazionale ben presto riprese a girare e gli anni che precedettero il cosiddetto miracolo economico del Cinquanta furono fruttuosi. Forse il Dottor Maranghi non seppe profittare della favorevole congiuntura economica attraversata dall’Italia dopo la fase della ricostruzione; se lo stato avesse rimborsato in tempo utile i danni di guerra denunciati regolarmente, i creditori non avrebbero presentato istanza di fallimento nel marzo del 1956”. Dopo la gestione di Maranghi, il Lanificio fu rilevato da due imprenditori pratesi: Fiani e Brachi, nessuno dei quali seppe effettivamente risollevare le sorti della fabbrica, che chiuse i battenti all’affacciarsi degli anni ‘70. Ne seguirono momenti di profondo smarrimento per il paese: la crisi in cui sprofondarono gli operai (la disoccupazione, lo spettro della miseria, il disagio vissuto da intere famiglia) spinse alcuni di loro, nel 1972, a costituire una cooperativa tessile e 60 dipendenti ripresero a lavorare.

 

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