La città che non vorrei



di Mauro Falsini

Fosse solamente cemento, almeno di quello buono a contenere i terremoti, avremmo poche giustificazioni nel rimanere sempre più disorientati dalla tristezza delle nostre città e periferie urbane. Purtroppo non è solo quello, ma è molto di più. Dobbiamo iniziare da molto lontano, dagli anni del boom economico, da quando cioè l’obiettivo primario era quello - legittimo peraltro - di dare un tetto alle orde migratorie che spopolavano le nostre campagne alla ricerca di una vita più dignitosa. Ma non c’era senz’altro dietro quello spirito caritatevole che è stato per molti anni e ancora oggi se ne sente a volte l’eco, il cavallo di battaglia di politici, amministratori e imprenditori, che dovevano giustificare la risoluzione di un problema reso dalla storia così contingente, quale quello della rinascita delle città, sconvolte nella loro impalcatura urbanistica e di vita sociale per colpa della guerra. Ma come è stata questa rinascita, e soprattutto quali sono state le dinamiche e parallelismi con altre città europee che, al pari dei nostri paesi, hanno dovuto fare i conti con la ricostruzione e con una nuova programmazione del territorio.

Con l’avvento della Repubblica era stato costituito un nuovo assetto di gestione burocratica dell’amministrazione pubblica, che già dall’inizio ha avuto dei problemi, forse derivati dalla difficoltà di far girare ingranaggi nuovi, depurati dalla ruggine del regime fascista che aveva indirizzato il modo di costruire le città verso una concezione troppo rigorosa e metodica e imperniata comunque da volontà totalitaristiche che dovevano venire smantellate. Si doveva partire dal rispetto giuridico del P.R.G., che nasce già nel 1865, ma che nel 1942 diventa uno strumento regolatore della crescita urbana con la finalità di disegnare lo sviluppo delle città e di gestire il suo incremento di carico umano. Non era la legge che mancava, e nemmeno una corretta articolazione dei contenuti, forse troppo macchinosi e di difficile attuazione, almeno nel rigore della norma. E’ forse mancata la fase di attuazione, o, ancora peggio, la soggettività di interpretazione. Si è operato diversamente da regione a regione, da città a città, usando parametri diversi, interpretando ad uso e consumo di spicciola convenienza personale indirizzi specifici e finalità che avevano lo scopo di migliorare la vita delle persone. E così si sono costruite città dormitorio, interi quartieri tirati su nell’arco di pochi mesi, palazzoni di cemento tutti uguali, purtroppo troppo diversi dai fratelli maggiori costruiti qualche decennio prima, strutture troppo semplici realizzate in economia nella speculazione di poche persone che si sono arricchite fregandosene della storia prestigiosa del nostro paese, nell’ignoranza più imperdonabile dei nostri trascorsi artistici e culturali che oggi paghiamo a caro prezzo nella ricerca - solo a parole - di come ristrutturare le città. Dalla non conoscenza e dalla negligenza sono sorti, negli anni, episodi di degrado e di abuso del patrimonio architettonico, dinamiche che non cessano ancora oggi la loro evoluzione parossistica per interventi che dovrebbero essere di alta qualità architettonica e che invece si allineano al nostro passato recente con casermoni in cemento, tutti uguali a se stessi, senza distinzione tra zone di espansione urbana e zone industriali o artigianali, all’interno di aree di alto pregio artistico e architettonico destinate a divenire nel tempo superstiti di quello che un tempo era orgoglio dello stile italiano e che oggi risulta essere un patchwork di accozzaglie di case senza stile, ne contenuto, ne gusto. Le stesse periferie subiscono così gli stessi maltrattamenti nella veste ormai consueta che cerca di sfruttare al massimo l’ultima cubatura disponibile, a discapito degli spazi verdi, delle opere di comune fruizione, dei servizi di collegamento ai centri nevralgici della città. Allarghiamo i nostri centri urbani e continuiamo con antica testardaggine a non preoccuparci di come muoverci all’interno di questi: continuiamo ad utilizzare automobili e a servirci di un trasporto metropolitano su gomma ormai vetusto che allontana sempre più i margini, già distanti, che ci separano dalla razionalità e lungimiranza, oltre che da una capacità pratica di gestione, dei nostri partners europei. Eppure di architetti bravi ce ne sono in Italia, professionisti di comprovato talento e professionalità, che guarda a caso i lavori più importanti li hanno realizzati all’estero, dove si da credito alla fantasia e alle capacità dei professionisti e meno spazio alle volontà dell’amministratore di turno. Confrontiamo Milano a Londra. Nel primo caso, mancando un efficiente sistema di trasporto pubblico, più di 4 milioni di persone che abitano nell’hinterland milanese sono costrette, per motivi di lavoro, a spostarsi in città con l’automobile; per contro il 70-80% delle persone che vivono nel South East England, relativamente simile all’hinterland milanese, usa i treni. Sempre a Londra, nella City ogni giorno entrano circa un milione di persone e il 97% di queste utilizzano la metropolitana; inoltre non è consentita la sosta di mezzi privati: efficienza dei trasporti metropolitani, nessuna lamentela dei residenti, nessuna polemica da parte dei pendolari. Si parla tanto di ecologia e di riduzioni delle emissioni di CO2 in atmosfera: Friburgo, non ultimo prototipo di agglomerato rurale, ma antica capitale della Foresta Nera, è pioniera in Europa nelle energie rinnovabili. Non solo, è riuscita a coniugare ecologia e affari, grazie a leggi ad hoc volute dal governo e grazie al primato della Germania nell’utilizzo di fonti energetiche alternative. Timidamente incominciamo solo oggi a predisporre di qualche progetto preliminare che utilizza pannelli fotovoltaici al posto dei tradizionali coppi e tegole, ma la strada da percorrere nelle nostre commissioni edilizie è ancora molto lunga e piena di ostacoli. Ad una domanda su come rottamare le città l’Architetto Boeri risponde che “a Berlino, già nel 1980 l’Iba (Internationale Bauausstellung Berlin) iniziò a ridisegnare la città, senza toccare i parchi ma lavorando e rimodellando l’esistente. Lo stesso è successo a Barcellona, che si è rigenerata senza crescere; a Londra, dove sono state recuperate intere zone dell’East End (tradizionalmente una zona povera e ad alto tasso di criminalità). Proprio a Londra realizzeranno per le olimpiadi del 2012 strutture sportive smontabili che potranno essere riutilizzate altrove.” Conclude l’intervista dicendo che “questo è lo spirito giusto, guardando già al dopo evento”.

Credo in fondo che tutto si possa riassumere non tanto nella mancanza di lungimiranza da parte di professionisti poco accorti, o nella incapacità di certi nostri amministratori, o nella complessità e rigidezza di norme sul territorio, ma quanto nella mentalità di ognuno di noi, alla cultura del nostro popolo, per certi aspetti troppo condizionata a guardare con egoismo al proprio orticello, alla proprietà privata, a non portare il dovuto rispetto verso il patrimonio collettivo (motivo di orgoglio in altri paesi occidentali), a considerare il bene comune non come una ricchezza personale da preservare, ma una sorta di contenitore pubblico, che proprio perché di tutti, passibile di ogni sorta di maltrattamento e disinteresse. E questi comportamenti, che costituiscono l’impronta personale e caratteriale di ognuno di noi, rendono l’uomo intellettualmente più povero e si traducono nella formazione di una cultura sociale sterile nei rapporti interpersonali, nelle relazioni sociali, condizionando processi economici e scelte politiche. E’ giunta l’ora di rimettere in gioco le nostre coscienze, così facendo forse un giorno avremo anche città migliori.

 

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