Amebe



di Francesco Tavanti

Stamani su un vecchio numero di Fashion Illustrated ho letto che in Cina la produzione si sposterà dal sud al nord. Questo perché rispettivamente il primo è più industrializzato e perciò più caro.
Si parla di un costo di neppure $ 2 all’ora… comunque troppo "elevato" per un mercato abituato a merce senza valore, e ad aziende il cui unico scopo è creare profitto. Sembra non importare ciò che si fa, ma cosa da questo si può ottenere. Vengo da una famiglia che ha costruito il lavoro su di una passione, da cui ancora oggi ne consegue un progetto di vita.
Ma non è di questo che volevo parlare, ma di un sempre più evidente squilibrio economico del mondo occidentale.
Fin da piccolo a scuola mi hanno insegnato che un’economia poggia su tre colonne: primario, secondario e terziario. Ho anche imparato che l’economie forti sono quelle industriali. Prima quella inglese poi quella americana e tedesca poi quella italiana e giapponese nel dopo guerra. Oggi è la Cina a trainare il resto del mondo con le sue produzioni.
L’industria è quella che si appropria delle materie prime, per reimmetterle, trasformate, attraverso i sevizi. E’ il volano armonizzatore delle forze economico-sociali in campo.
Prima gli USA poi l’Inghilterra e successivamente gli altri paesi del “Continente” occidentale hanno creduto di delegare la colonna industriale ai così detti paesi in via di sviluppo, a basso costo salariale. Questi successivamente si sono trasformati in mercati emergenti e oggi detengono il potere economico mondiale, sottraendo linfa vitale all'intero pianeta. Ma ancora non è ciò a cui volevo arrivare o tornare. Il punto è che l’economia degli ex paesi industrializzati dopo un primo momento di apparente euforia finanziaria stà perdendo stabilità, ricchezza e tanti posti di lavoro. Mi chiedo se una società possa delegare ad altre la produzione dei propri vestiti, manufatti e cose di uso ordinario. E’ come se dicessimo (e stiamo iniziando a farlo) le nostre case non le costruiamo più noi ma le facciamo fare agli altri, il cibo di cui ci nutriamo non lo coltiviamo più, i conti li deleghiamo a società di consulting indiane ecc. ecc.
Qualcuno è pronto a risponderti questa è la globalizzazione è il villaggio globale… ma neppure per sogno. Quando una volta si andava al mercato, chi con le uova, chi con gli ortaggi chi con il formaggio o i vestiti, lo facevano con prodotti nati, trasformati nello stesso territorio e con le stesse regole. Qui si vuole produrre in una parte del mondo e vendere in tutto il mondo, aiutati dalla facilità di trasporti e comunicazioni, ma utilizzando regole completamente differenti. C'è un evidente asimmetria in questo "Villaggio". E’ come se volessimo mangiare la polpa trascurando il nocciolo.
Ma la cosa più grave è che l’intera nostra società si svuota culturalmente, perde le sue prerogative e noi ci ritroviamo più poveri e insoddisfatti.
Fino a quando, culture più forti ci fagociteranno risputandoci come le Amebe.

 

0 commenti: