Biennale di Venezia 2011, appunti di viaggio.



di Mauro Falsini

E’ variamente, leggermente diversa, Venezia, durante uno dei suoi qualsiasi periodi dell’anno. E’ vero, i turisti fanno sempre la loro bella presenza e sembrano essere il fulcro vitale di questa città sempre più in mano agli stranieri a discapito dei nativi, che da qualche decennio stanno scappando verso lidi più comodi.
E’ anche vero che qua e là si intravedono vecchiette irriducibili blindate all’interno di appartamenti poco luminosi, seppure invidiabilmente romantici, che distinguono e manifestano la loro fierezza nei confronti di chi riconoscono non far parte della loro comunità.
Ma Venezia durante la Biennale è veramente un’altra cosa. Si respira un’aria insolitamente poco nostrana, che caratterizza piuttosto i fermenti culturali di avanguardia che si odorano in alcune delle grandi metropoli occidentali. Venezia è stracolma di eventi, di party interminabili, di opening organizzati da grandi collezionisti, di inaugurazioni di nuove importanti fondazioni che mettono per la prima volta radici in questa città. L’arte contemporanea trova finalmente la sua naturale collocazione, in una cornice che si presta bene al rinnovamento di quel filone artistico, che da Canaletto a Vedova, ha sempre tenuto dritto il percorso della ricerca e dell’innovazione. E i turisti e le calle del centro stracolme di vetrine e curiosi, per una volta, passano in secondo piano.

L’esclusività dei Giardini:

L’ingresso in Biennale mette un senso di timore. Il Padiglione Centrale “ex Padiglione Italia”, rinnovato a spazio multitecnologico e sede delle esposizioni di alcuni degli artisti invitati dalla curatrice svizzera Bice Curiger, è veramente ben allestito. Si inizia con le immense serigrafie monocromatiche di Christopher Wool (tra le poche opere su tela ammirabili in questa manifestazione) che riempiono un ampio spazio luminoso che contrasta con i toni prevalentemente cupi e freddi che si imprimono con procedimenti di falso mirror, superando l’evoluzione di approccio più tradizionalista dell’espressionismo astratto americano.

Di grande impatto suggestivo i lavori di Llyn Foulkes; le sue immagini irriverenti abbracciano la cultura neopop e sanno affiancare talento esecutivo a significato di critica sociale e politica.


Llyn Foulkes, Lucky Adam, 1985, Giardini, Padiglione Centrale

Jack Goldestein espone quattro lavori degli anni ottanta dal sapore scenico e rappresentativo di eventi naturali, come l’eruzione di un vulcano, reso essenziale nell’architettura del processo fisico.

La scena prende un vigore particolarmente giocoso nelle sale dedicate a Amalia Pica e Norma Jeane. La performer argentina associa una installazione luminosa essenziale, che al passaggio dei visitatori che si avvicinano ad una scritta sul muro, si accende a formare cerchi colorati che si intersecano a formare un’area di sovrapposizione neutra. Jeane stupisce invece per la capacità di creare interazione diretta con l’utente. Questo smette per una volta di essere spettatore e parte critica dell’opera, divenendone il protagonista principale: risultato, l’opera si trasforma dinamicamente con il passare del tempo e dei passanti curiosi che interagiscono con essa, modificandone la struttura e la forma.


Norma Jeane, Jan 25, 2011, Giardini, Padiglione Centrale

Se Fischli & Weiss si intestardiscono a proporre sculture, nemmeno troppo monumentali, che trovano la loro staticità, non per la sostanza - argilla cruda - effimera perché sensibile per propria natura, ma grazie a forme tozze ben appoggiate a terra e comunque dal significato esclusivamente autoreferenziale, il Lituano Gintaras Didziapetris stupisce per la semplicità con la quale ha saputo, nel suo Optical events, narrare attimi di frammentaria e dall’apparente banale quotidianità.

Ma è Pipilotti Rist che riesce ad ottenere, sempre di più e a maggior ragione da parte della critica, forti emozioni. In una stanza completamente buia, la Rist proietta tre riproduzioni di luce "assordante” e dal significato accattivante: tre diverse vedute di una Venezia versione kitsch, ricostruite magistralmente con raffinata tecnica digitale, si sovrappongono ad immagini fluttuanti, che conferiscono riflessi psichedelici surreali. Se nella volontà della videoartista questi esistono perché capaci di arricchire la scena, paradossalmente rischiano di confondere e mettere in secondo piano gli spettacolari tecnicismi virtuali della città ricostruita. E’ il paradigma della Venezia, che pur mantenendo il suo scheletro rinascimentale, accetta di essere proiettata verso una dimensione di ricerca e di avanguardia culturale.


Pipilotti Rist, Laguna, 2011, Giardini, Padiglione Centrale

La pittura trova ancora uno sfogo con Sigmar Polke, già Leone d’Oro nel 1986, che per quattro decenni ha proposto opere dal carattere anticonformista. Scomparso nel 2010, a Venezia viene allestita una sala a lui dedicata, dove emerge, sontuosa e monumentale, l’effige destrutturata e ricomposta su pixel a trama irregolare di un agente senza volto in posa accanto a un maiale antidroga con in testa il cappello del poliziotto. La stessa opera era stata esposta all’esterno del Padiglione tedesco nel 1986.


Sigmar Polke, Polizeischwein, 1986, Giardini, Padiglione Centrale

E poi, fulcro centrale del padiglione, sia per collocazione che per grandezza, tre opere di Tintoretto. In questo caso valgono le parole della Curiger, che sceglie l’artista veneziano, più che per lo scontato legame con la città, per la capacità che ha avuto nell’usare in modo diverso e innovativo la luce, elemento dominante di questa edizione, tanto da rappresentarne il titolo della mostra.

Senza fiato lascia, ancora una volta, Maurizio Cattelan. Invitato all’ultimo momento, stupisce per aver disposto circa duemila piccioni tassidermizzati lungo le travi del sottotetto. Per la verità, si tratta di una cosa già vista proprio a Venezia nel 1997, anche se in quella occasione gli imbalsamati erano molti di meno e volevano rappresentare il degrado del padiglione che doveva accogliere gli artisti italiani, fotografato nell’istante della visita di sopralluogo precedente l’allestimento. Oggi i piccioni sono lievitati e assumono un significato diverso e ancora graffiante: la presenza assennata e fastidiosa dei volatili sterilizzati, se da una parte manifestano noncuranza e disinteresse verso l’arte contemporanea - così come ci viene oggi confezionata - dall’altra richiamano un’attenzione esageratamente ossessiva e volutamente pensata dall’artista, condizionata dal numero traboccante e dall’ostentata posizione dominante, sull’arte stessa.


Maurizio Cattelan, The others, 2011, Giardini, Padiglione Centrale

Uscendo dal Padiglione centrale, un rumore assordante e non riconoscibile ci indirizza verso il luogo che lo ospita. L’origine di tutto questo è il fragore prodotto dal carrarmato rovesciato del peso di 50 tonnellate di Allora e Calzadilla, il duo che ha voluto rendere stupefacente l’ingresso al Padiglione americano. Per la verità, il meccanismo che alimenta i cingoli è un tapis roulant collocato alla sommità, dove si alternano atleti professionisti, con tanto di completino a stelle e strisce, che grazie alla loro performance di circostanza, mettono in moto tutto il marchingegno. Creando un sacco di baccano misto ad incredulità e dubbi. E’ la potenza americana che si vede sopraffatta dall’assennata ricerca della perfezione fisica come status sociale (la stessa domanda ci si pone anche davanti ad altre due performances all’interno dello stesso padiglione), oppure è l’America che si può permettere di mostrare tutta la sua grandezza e imporre la propria forza - anche militare - al mondo che guarda impietrito e impotente? In ogni caso pare che, messa da parte ogni genere di acrobazia, il messaggio che viene proposto è quello del voler a tutti i costi primeggiare, anche se con atteggiamenti urticanti e chiassosi. Se poi, come molti pensano, tutto questo vuole rappresentare una denuncia - non troppo sottile - sulla deriva della cultura imperialista statunitense, possiamo tuttavia essere d’accordo sul fatto che, piaccia o non piaccia, tutto questo casino fa almeno riflettere.


Allora e Calzadilla, Track and field, 2011, Giardini, Padiglione Stati Uniti

Impressione opposta fanno i padiglioni orientali della Corea e del Giappone, fra i più interessanti assieme all’Austria e alla Danimarca. La ricerca coreana di Lee Yongbaek trova ispirazione dalla commistione ben riuscita di ricerca ed eleganza. La misurata alternanza di pittura, fotografia, video e scultura non stanca l’attenzione. A spezzare il clima rilassato e composto ci pensano tre enormi superfici specchianti, che all’improvviso simulano la rottura provocata da un proiettile sparato da un’arma da fuoco, accompagnata dal rumore dello sparo frammisto ai cocci di vetro che cadono per terra.

Il Giappone di Tabaimo, offre una visione globale della cultura giapponese, proposta attraverso proiezioni di ambienti metropolitani montati in sequenza continua (Teleco soup), che si trovano amplificati nello spazio grazie ad un abile utilizzo degli ambienti. Il sapore è di un retrogusto malinconico e richiama la tradizione delle stampe giapponesi in chiave modernista: lo spazio, reso fluido da suggestioni colorate sempre in movimento, si amplifica profondo su tutte le pareti, in una sequenza interminabile e inafferrabile.

La Danimarca offre uno scenario variegato di artisti selezionati con grande intelligenza da Katerina Gregos. Le opere, che spaziano da video a installazioni, da foto a lavori di approccio documentale, si rivelano interessanti perché riescono ad amalgamare - seppure con personalità e sensibilità diverse - il tema della libertà della parola. Il filo rosso che lega tutti quanti gli artisti è infatti quello di restituire una immagine della cultura politica attuale senza censure e ipocrisie, unendo alla capacità - anche didattica - che le opere hanno di comunicare con immediatezza, la ricerca di tecnicismi di avanguardia che i diciotto artisti sono riusciti a proporre in questo padiglione di alto livello.


Han Hoogerbrugge, Quatrosopus, 2011, Giardini, Padiglione Danimarca

L’Austria di Markus Schinwald sconvolge letteralmente i sensi. E non solo, credo coinvolga anche la parte più critica e razionale che si ha normalmente di fronte a una qualsiasi opera d’arte. Si, perché i lavori di questo artista austriaco, che nel 1998, giovanissimo di stanza a Berlino, in occasione della prima edizione della Biennale della città che lo ospitava, proponeva messaggi commerciali proiettati su un mega schermo che sovrastava la mitica Alexanderplatz, hanno da sempre un sapore rivoluzionario. Niente di nuovo si potrebbe dire, per la verità la cultura consumistica fa parte del nostro vivere almeno da mezzo secolo. Ma gli spot che Schinwald lanciava erano scomodissime, seppure elegantissime, scarpe da donna senza suola, con tacchi piantati sui talloni e allacciati alle caviglie di una povera modella prestata al faticoso autocontrollo sull’ordinario stereotipo del voler apparire più che del voler essere.

Ed oggi, a Venezia, riesce a mantenere coerenza con le tematiche sociali proposte dalla prima ora, allestendo uno spazio elegante ed essenziale, dove alterna raffinate pitture rubate dall’iconografia ottocentesca, a video dal sapore ironico e significato linguistico di intenso carattere sociale.


Markus Schinwald, Abigail, 2011, Giardini, Padiglione Austria

Se L’America colonizza, con il carrarmato capovolto, un ampio spazio, richiamando troppa ingiustificata attenzione, il dirimpettaio padiglione israeliano rischia di passare quasi inosservato. Rischia, perché dall’esterno non si riesce a notare niente di significativo. Ma l’interno disconferma questa sensazione, e con ragione. Tra impianti termoidraulici, che si muovono con giunture a tenuta stagna, occupando in un labirinto di tubature in ferro tutto il piano terra, emergono sul piano superiore video concettuali che raccontano temi sociali e ancora una volta politici. In uno dei video proposti, un paio di scarponi coperti di sale del Mar Morto, ripresi in primissimo piano, affondano lentamente nel ghiaccio. Il processo fisico si autoalimenta sino a far scomparire completamente, nell’isolamento di un’area portuale (la magia del silenzio viene esaltata dai rumori ovattati e lontani provenienti dalla città), gli scarponi stessi.

Nei due giorni a disposizione per la biennale non sono riuscito a vedere tutto e comunque non riuscirò a commentare emozioni e delusioni suscitatemi da tutte le opere che sono riuscito a vedere. Sensazioni positive, seppure con riserva, me le ha lasciate Christian Boltanski, che è riuscito a riempire con una sola installazione tutto il Padiglione Francese. Amatissimo dalla critica, questa volta ha messo in piedi un marchingegno tipografico complicato sul quale corrono veloci - come in una manovia - fotografie in bianco e nero di neonati. Uno schermo gigante posto in un’altra sala proietta in sequenza continua le facce composte dai ritagli dei volti di 60 neonati Polacchi e di 52 Svizzeri deceduti, fino a formare circa un milione e mezzo di esseri ibridi. L’installazione propone l’interazione con il visitatore: premendo un bottone si crea il fermo immagine di una sequenza casuale. Se la combinazione compone un viso in cui le tre parti sono perfettamente coincidenti, si è fortunati, perché significa che ci siamo aggiudicati l’opera.


Christian Boltanski, La ruota della fortuna, 2011, Giardini, Padiglione Francia

Maggiori perplessità le hanno lasciate i padiglioni Inglese e Tedesco. Seppure in controtendenza con il pubblico, l’inglese Mike Nelson non convince le mie aspettative. Sarà per la mia predilezione per pulizia e rigore, ma la ricostruita scenografia di un interno vissuto e trasandato - seppure rappresentativo e realistico - non è riuscita a farmi trovare il tratto geniale che trasforma un’idea in un capolavoro.

Leone d’oro per il miglior padiglione nazionale, Christoph Schilgensief per la Germania allestisce gli spazi come una chiesa, con altarini e suggestioni che effettivamente ben si addicono ad un luogo di culto. La cattedrale pagana viene così riempita di opere, tra le più rappresentative del suo percorso artistico: sicuramente più interessante il contenuto del contenitore.

Il fascino dell’Arsenale

Più compatto e meno dispersivo dei Giardini si presenta l’Arsenale. Anche qui viene perfettamente mantenuta la qualità artistica e la linea curatoriale imposta dalla Curiger. Gli artisti, alcuni giovanissimi, sono di altissimo livello e l’eccellenza dei molti lavori esaltano con maggiore intensità il fascino - già intenso di suo - delle sale dell’Arsenale. Il percorso, dall’ingresso, segue un lungo rettilineo di ambienti suggestivi che si contrappongono alle opere, a volte irriverenti, che amplificano un contrasto scenico volutamente ricercato, che diventa, esso stesso, opera d’arte. La prima sala ospita Yto Barrada, che propone lavori con metodo documentaristico, ricomponendo la memoria del suo passato e del legame con la sua famiglia. Proseguendo si incontra l’americano di origine georgiana Wekua. In questa occasione l’artista espone una serie di modelli architettonici fuori scala, montati sulla scorta di ricordi personali e testimonianze storiche che riproducono edifici della città di Sochumi, abbandonata da Wekua allo scoppio della guerra civile. Le parti mancanti di questi modellini, richiamano volutamente i vuoti di memoria ed amplificano sofferenze e malinconie di un’intera comunità.

Di impatto scenico l’installazione di Mariana Castillo Deball. Una carta lunga dodici metri, piegata a soffietto protetta da una teca, rappresenta figure ancestrali e zoomorfe tracciate a china ispirate al codice Borgia, uno dei pochi manoscritti rimasti delle civiltà precolombiane. Accompagnano questo elemento, dominante la scena, un video e una composizione musicale.

Credo con assoluta convinzione sia Urs Fischer uno degli autori più esaltanti dell’intera manifestazione. Il suo è un lavoro che si compone di tre parti: opera, installazione, performance. E aggiungerei una quarta, il significato. Opera, perché la rappresentazione di pregevole fattura iperrealista lascia di stucco per come è stata confezionata, così perfetta e bella da vedersi. Installazione, perché il lavoro si compone di più parti distinte, concentriche tra loro: la riproduzione del Ratto delle Sabine del Giambologna, la sagoma di un uomo che la osserva con aria sorniona (si riconosce l’effige dell’artista Rudolf Stingel), la copia della sedia del suo studio. Performance perché - seppure convenzionale per Fischer - tutti quanti gli oggetti sono di cera e vengono fatti sciogliere lentamente da stoppini che corrono all’interno delle sculture. Le immense candele di cera sono così destinate a ridursi in un cumulo informe e la destinazione finale rappresenta il paradigma della vita, paradossale quanto suggestiva, volta alla perfezione pur nella consapevolezza della sua fragilità.


Urs Fischer, Untitled (particolare), 2011, Arsenale

Il sudafricano Hlobo colloca al centro di un ampia sala, in posizione sospesa, un immenso mostro alato squartato, fatto di gomma e di altri materiali non convenzionali, alcuni di questi penzolano dalle interiora e sono lì per essere esplorati da vicino, per essere parte integrante della scena. Questa scultura è affiancata da quattro dipinti e una registrazione audio.

Con The clock Christian Marclay si aggiudica con tutti gli onori il Leone d’Oro come migliore opera. E il video, che con più di mille frammenti di immagini rubate dalla filmografia più o meno recente - in cui compaiono ore in qualsiasi formato, impresse su ogni tipo di orologio (da polso, da campanile, a cucù, digitale, etc…) riassemblate a formare un orologio - da il senso, oltre che della genialità dell’idea, del lavoro di ricerca che Marclay si è dovuto sobbarcare. Quando mi sono seduto su una delle poltrone posizionate nell’ultima sala delle Corderie, il proiettore immortalava una scena del film Il Migliore. Robert Redford spara il fuori campo tanto atteso e la palla si infrange sull’orologio dello stadio, fermando le lancette sulle 16:40. Proprio l’ora impressa sul mio cellulare. Il percorso - anche intuitivo - portato avanti da Marclay è stato lungo e faticoso. Con assoluta convenienza e vantaggio per l’autore, ma anche per l’acquirente. Che, secondo il critico Francesco Bonami, oltre ad avere in casa un’opera d’arte di alto livello, avrà anche un orologio a parete non convenzionale e perfettamente funzionante.


Christian Marclay, The clock, 2010, Arsenale

Se l’opera di Turrell non vale - a mio parere - una coda così estenuante per essere vista, tempo guadagnato è quello speso ad ammirare l’installazione di Elisabetta Benassi. La videoartista nostrana propone nove lettori di microfiche motorizzati, che in sequenza random mostrano particolari originali di vecchi documenti di archivio - sapientemente scannerizzati - dove si leggono alcune delle vicende di cronaca che hanno segnato la storia recente del nostro paese. Il rumore delle bobine che avvolgono i nastri si interrompe in un improvviso silenzio e i video si soffermano per un attimo su parti diverse dello stesso documento: è la pausa che ci permette di dare maggiore significato e importanza a segmenti della nostra storia.

Infine il Padiglione Italia. Molto è stato detto e scritto e le polemiche vocianti sull’inopportunità di portare alle Tese delle Vergini quasi trecento artisti, così come è stato pensato e voluto da Vittorio Sgarbi, mi ha suscitato perplessità mista a curiosità. E’ stata l’ultima cosa vista il primo giorno trascorso all’Arsenale. E non è stata di sicuro la più entusiasmante. Il pensiero del curatore è assolutamente in controtendenza con tutto il resto dell’esposizione, i lavori sono ammassati uno sull’altro, sono assemblati come un mazzo di carte non scozzato: maestri di caratura internazionale si trovano accanto ad artisti, alcuni di provato valore, altri dilettanti della porta accanto prestati alla pittura. In questo modo non si riesce a dare il giusto peso a lavori, alcuni dei quali interessanti. E così rischiano di perdere peso, o il giusto merito, alcuni nomi che hanno onorato la chiamata di Sgarbi in cambio di una dovuta cortesia, oppure per ingrossare di una ulteriore menzione un curriculum già di per se prestigioso.


Padiglione Italia, veduta dell’allestimento, Asenale

Nel merito delle ragioni e del significato della mostra non voglio addentrarmi, anche perché frequentemente la critica ha necessità di commentare persone e scelte, più che contenuti e idee sull’arte contemporanea. Spesso si tende a parlare di politica e di poteri forti, ma questo fa parte della nostra italianità e va bene così. Tornando ai fatti, non posso limitarmi a dire semplicemente che la mostra è brutta e sovraffollata, perché anche questa affermazione sarebbe banale e perderebbe di significato. Voglio sforzarmi di pensare in modo costruttivo e allinearmi alla riflessione fatta dalla critica Emanuela de Cecco su un suo articolo a proposito del Padiglione Italia: “Stiamo forse mancando di registrare l’emergere di un una ondata di novità capace di interpretare il nostro tempo con un’efficacia tale che l’arte che frequentiamo abitualmente non riesce più ad ottenere? Se così fosse ci troveremmo davanti a un’operazione clamorosa”.

 

1 commenti:

Angelo Bianchi ha detto...

Grazie Mauro, porterò con me i tuoi appunti nella mia visita alla Biennale, nei prossimi giorni.
Angelo Bianchi